di Francesco Agnoli
Dopo secoli di abitudine, si finisce per dare per scontato ciò che non lo è affatto. Sto parlando dell’istituzione ospedaliera, di cui tutti facciamo uso più volte nella vita. Ebbene, prima di Cristo l’ospedale non esisteva. O meglio: ve ne sono stati alcuni, sparsi qua e là, nel corso dei millenni. Sporadici, molto limitati nell’accoglienza, sovente a pagamento.
L’ospedale come luogo di ricovero, aperto a tutti, ricchi e poveri, e accessibile in ogni città, è nato da una nuova idea di Dio e di uomo. Quella cristiana. Come sempre infatti i dogmi religiosi non sono verità intellettuali astratte, che rimangono sospese per aria, ma hanno una ricaduta concreta nella vita di tutti i giorni.
Il valore del corpo
Cristo insegna all’uomo che Dio ha preso una carne: ciò redime la carne, tanto disprezzata dagli gnostici e dalle filosofie orientali. Mostra all’uomo che Dio ha scelto di soffrire: ciò redime il dolore, sovente visto solo e soltanto come maledizione e punizione personale. Dice all’uomo che è morto per tutti noi: ciò insegna l’uguaglianza tra gli uomini, sconosciuta a tutto il mondo antico. Cristo compatisce, guarisce, si prende cura: Carità infinita, infirmus et medicus nello stesso tempo come dicevano i medievali. Cristo insegna a prendersi cura dei più deboli. E ordina di fare altrettanto: «Euntes curate infirmos» (Luca 10,3-9)
Come ha scritto Gregorio di Skevra: «Ha avuto fame, Chi dà cibo a tutte le creature viventi; ha avuto sete, Chi ai suoi credenti dona l’acqua della Vita; ha sentito stanchezza, Chi è riposo degli affaticati; ha pianto, Chi asciugò ogni lacrima da tutti gli occhi».
L’Ospedale figlio della carità cristiana
Nasce così, dunque, nei secoli, l’ospedale: perché ogni cristiano è invitato prendere esempio da Cristo, a vedere con gli occhi della fede, dietro il povero, il pellegrino, il malato, un altro Cristo. “Pauper tamquam Christus”, dicono i medievali e aggiungono: “hospes tamquam Christus”; “infirmus tamquam Christus”… Il povero, l’ospite, il malato, sono “come Cristo”.
Senza questo sguardo non si capirebbe l’azione di Fabiola, che nel 390 d.C. fonda il primo ospedale occidentale: il suo curarsi su corpi distrutti, il suo lavarli, accudirli, nutrirli, in una delle sue dimore di discendente di nobile famiglia. Così scrive di Lei san Gerolamo: «Quante volte ha lavato il pus da piaghe che altri non riuscivano neanche a guardare! Nutriva i pazienti con le sue stesse mani e, anche quando una persona non era altro che un povero corpo scosso dal respiro, lei ne rinfrescava le labbra con alcune gocce d’acqua».
Senza lo sguardo insegnato da Cristo sul prossimo, non si capirebbe l’epopea dei monasteri benedettini, dove per secoli si sono accolti i poveri, per lavare loro i piedi, nutrirli e vestirli; non si capirebbe il fiorire di xenodochi, refugios, hospitales, sulle vie dei grandi pellegrinaggi medievali, verso Roma, Gerusalemme, Santiago di Compostela….
I grandi ospedali medievali
Come nascevano i primi ospedali? Fiorivano dal basso. Non dallo Stato. Non c’erano medici e infermieri pagati, ma volontari che offrivano la propria vita, rinunciando spesso persino a una loro famiglia, per assistere poveri, bisognosi e bambini orfani (detti gettatelli o trovatelli).
A santa Maria della Scala (IX secolo), a Siena, in uno dei più belli ospedali medievali, rettore e oblati, entrando al servizio degli infermi, abbandonavano tutto e donavano i loro beni. Perché l’ospedale aveva bisogno di soldi: non tanto per le cure, ancora rudimentali, ma per rendere il luogo il più possibile accogliente; per pagare le balie che venivano ad allattare i bambini abbandonati; per il vitto e l’alloggio di tanti nullatenenti, la cui povertà portava, spesso, anche all’infermità…
E poi occorrevano soldi perché la struttura fosse bella: l’ospedale medievale assomiglia spesso a una chiesa, con una grande navata; è affrescato dai pittori più famosi dell’epoca, che non dedicano le loro attenzioni solo alle chiese, ma, appunto, anche agli ospedali. Esattamente come avviene con i famosi musicisti, che non di rado dedicano qualche ora del loro tempo per suonare nelle corsie degli ospedali, o per insegnare musica e canto ai bambini trovatelli. Occorrono tanti soldi, per l’ospedale romano di Santo Spirito (XIII secolo): con il suo splendido tiburio, la sua ruota degli esposti, il suo teatro anatomico dove studierà Michelangelo, i suoi portali sontuosi…
L’elemosina del popolo cristiano
Questi soldi vengono spesso dalla proclamazione delle indulgenze: il popolo di Dio dona del suo, fa l’elemosina, per coprire la moltitudine dei propri peccati. Ma poi ci sono le donazioni della gente comune – un letto, degli abiti, del cibo – e quelle più ricche dei signori. Ci sono, soprattutto, i lasciti testamentari, che iniziano spesso con parole come queste: «Pauperes Christi heredes nostros instituimus». Oppure i soldi di grandi mercanti profondamente religiosi, o che si pentono dopo una vita non sempre esemplare. O che sono abituati, per formazione religiosa, a non dimenticare mai le elemosine. O che vengono richiamati, dopo tanti affari, a pensare alla salvezza dell’anima, e finiscono qualche volta persino per donare tutto e passare gli ultimi anni di vita in estrema frugalità.
L’elemosina sovente cresce durante i periodi più duri, quando imperversa una pestilenza, perché è proprio un simile male – “castigo e misericordia”, come direbbe Manzoni – che, come scrisse nel 251 d.C san Cipriano di Cartagine, «mette a prova la santità di ognuno e pesa sulla bilancia il cuore umano, giudica cioè se i sani servono gli infermi, se i parenti assistono pietosamente i parenti, se i padroni hanno pietà dei servi languenti, se i medici abbandonano i malati che li cercano, se i delinquenti frenano le loro violenze, se gli usurai smorzano gli ardori indomabili della loro avarizia».
Così durante la terribile pestilenza del 1347, molti ospedali crescono e si ingrandiscono grazie alla beneficienza.
Analogamente durante la peste del 1630, a Pistoia, in un’epoca in cui lo Stato è già entrato da tempo a fianco della Chiesa e delle confraternite laiche nell’assistenza, una buona parte del denaro speso durante l’epidemia arriva proprio dalle donazioni. Scrivono gli storici William Naphy e A. Spicer: «In un anno normale le entrate cittadine ammontavano a 28.000 scudi. L’epidemia costò almeno 9100 scudi equivalenti al 36% delle entrate pubbliche. Come poteva una cittadina affrontare un simile esborso di pubblico denaro soprattutto durante una crisi che, per sua stessa natura, comportava il crollo della base imponibile?». Poteva perché nel 1630 a Pistoia, come nel resto d’Italia, esistevano da secoli il welfare state della carità cristiana, le offerte dei Monti di pietà, gli ausili delle fondazioni di carità create da fedeli benestanti, con cui si provvide a circa la metà dei bisogni.
La storia degli ospedali, che continua con personalità straordinarie come quella di Ettore Vernazza, Giovanni di Dio, Camillo de Lellis… è una epopea stupenda, che dimostra cosa significhi la forza dell’amore di Dio, attingendo al quale anche noi, poveri uomini, possiamo grandi cose.
Fonte: Il giudizio Cattolico